Ho 32 anni e, ahimè, il grande Lane è un ricordo sbiadito della mia infanzia ed è frutto della mia immaginazione stimolata dai racconti di mio padre e dei più vecchi della curva. In macchina con me a Parma c’erano un ragazzo del 1995, un ’99, un 2002 e un 2003.
Mi sono sforzato al ritorno, fradici e incazzati, di provare a trovare una motivazione per spingerli a venire ad Ascoli, a svegliarsi il giorno dopo ed essere orgogliosi di essere tifosi del Lane. È stato difficile, tanto difficile da non esser riuscito a trovare, per la prima volta in vita mia, le parole giuste, ma ci provo qui.
Perché quindi esserci e continuare ad esserci? Perché è qualcosa che fa parte di me, qualcosa che fa parte di noi.
Perché quando prendi in mano la sciarpa la mattina prima di uscire lo senti quel brividino lì… lo senti chiaro.
Perché quando ti ritrovi con i compagni di sempre infreddolito, stufo e già nervoso per la sveglia all’alba non puoi fare a meno di sorridere. Sorridi perché trovi quello intrattabile, quello che ha la birra in mano alle 6 del mattino, quello che si è appena alzato dal letto e quello che a letto non c’è proprio andato.
Fai l’ultimo controllo dei documenti e dei biglietti, controlli gli autogrill, pianifichi le soste e via.. Si parte.
Per la strada i racconti sono sempre gli stessi da anni, i più vecchi che parlano di trasferte di altri tempi, i più giovani che ascoltano e pensano alla sfiga che hanno avuto a nascere troppo tardi, ma in cuor loro non possono non sperare di rivivere la gloria di un tempo. Ti avvicini all’autogrill, ti metti d’accordo sul tempo, dici 10 pensando a 20 minuti. Ti fermi, smonti e vedi altri come te, con la tua sciarpa, ti avvicini e ci parli insieme, probabilmente li hai visti il giorno prima per strada o li vedrai il giorno dopo e nemmeno li saluterai, ma li no.. li son tuoi fratelli biancorossi e ci parli come se foste amici da una vita.
I venti minuti son diventati venticinque e si vola via, al casello c’è la scorta e bisogna muoversi per non rimanere incastrati.
Dopo un viaggio eterno si arriva allo stadio e qui non parla più nessuno. Ci si ritrova nel settore, si attaccano le pezze e si srotola il bandierone. Sei li, sei la Curva Sud Vicenza, e quando il bandierone comincia a sbandierare Dio solo sa quanto ti senti orgoglioso di essere lì.
Comincia la partita, cominciano i cori, essere in trasferta non è come in casa, c’è qualcosa di più, c’è quel qualcosa che ti spinge a consumarti la gola pur di far sentire la carica giusta ai ragazzi. La partita va una “merda” – se devo fare un conto su oltre 150 trasferte fatte nella mia vita il 70% sono state una “merda” – da casa ti chiamano, ti raccontano gli episodi perché, diciamolo chiaro, della partita non hai visto un cazzo. Rimonti sul mezzo che ti ha portato lì e riparti verso casa, solitamente in silenzio, ripensi a come è andata, ripensi a come è stata la curva, a quel coro che poteva esser fatto meglio.
Chiami gli altri che eran li, senti se l’uscita dallo stadio è andata liscia, apri il telefono e la prima cosa che cerchi è la foto della curva, per veder quanto bello siamo stati.
Sulla via del ritorno, dopo l’ennesima sconfitta, pensi che basta, è l’ora di finirla.
Poi finalmente ritorni nel tuo letto e l’unica cosa a cui continui a pensare è il boato dello stadio, l’unica cosa che continui a pensare è il fatto che nonostante tutte le sconfitte, nonostante gente che non gioca con le palle, nonostante tutto ti eri lì.
Tu eri lì e tu rappresentavi Vicenza, tu eri lì, e quando prima o poi tornerai a San Siro non serve che tu lo dica a nessuno, ma tu lo saprai… saprai che quando la “merda” ti è arrivata al collo tu c’eri, eri lì, hai lottato e non hai mai mollato un millimetro. Tu c’eri, eri lì, e l’unica cosa che contava era urlare al mondo che: NOI SIAMO VICENZA
Tutti ad Ascoli
PESA